Categoria: Responsabilità civile e risarcimento del danno

RESPONSABILITÀ DEL PRIMARIO OSPEDALIERO

Il primario ospedaliero – che, ai sensi del d.P.R. 27 marzo 1969, n. 128, art. 7, ha la responsabilità dei malati della divisione e il connesso obbligo di definire i criteri diagnostici e terapeutici, che gli aiuti e gli assistenti devono seguire – deve avere puntuale conoscenza delle situazioni cliniche che riguardano i degenti nonché delle iniziative intraprese dagli altri medici cui il paziente sia stato affidato, a prescindere dalle modalità di acquisizione di tale conoscenza (con visita diretta o a mezzo di interpello degli operatori sanitari) e indipendentemente dalla responsabilità di questi ultimi, e tanto allo scopo di vigilare sulla esatta impostazione ed esecuzione delle terapie, di prevenire errori e di adottare tempestivamente i provvedimenti richiesti da eventuali emergenze.

Il caso

Una partoriente subisce gravissimi danni alla persona a seguito del parto naturale eseguito in ospedale. Nel corso del giudizio di responsabilità intentato contro la ASL, l’operatore ed il primario del reparto ospedaliero si accerta che la grave scoliosi dorso – lombare con asimmetria del bacino, dalla quale era affetta la signora, imponeva l’adozione del parto cesareo, per le prevedibili difficoltà di fuoriuscita del feto e per le eventuali lacerazioni di parti molli in relazione a manualità compressive, rischio certamente presente anche in parti del tutto normali, ma di gran lunga maggiore nella fattispecie. In tale contesto, l’opzione per il parto naturale era stata, secondo i giudici del merito, una imperdonabile leggerezza, anzi una vera imprudenza, tanto più grave in quanto il ginecologo, che era lo specialista di fiducia della partoriente, non poteva ignorare la particolare conformazione fisica della sua paziente.

A tale negligenza andava poi aggiunta quella di non avere tempestivamente effettuato una adeguata terapia antibiotica, consentendo, in un territorio ad alta infettività, l’attecchimento di germi patogeni. I convenuti vengono, dunque, condannati al risarcimento del danno.

Essi propongono ricorso per cassazione ed, in particolare, il primario ospedaliero torna a ribadire la propria estraneità ai fatti, atteso che egli, che non aveva presenziato né al ricovero, né al parto, si era per altro verso trovato nell’impossibilità di avere contezza delle complicazioni lacerative verificatesi durante l’espulsione de feto, in ragione della loro mancata menzione nella cartella clinica e del volontario abbandono del nosocomio da parte della paziente.

La decisione

La S.C. rigetta sul punto il ricorso, enunciando il principio di diritto sopra massimato, relativo alle responsabilità connessealla posizione apicale del primario. In tal senso conferma la correttezza e la congruità della motivazione adottata dai giudici del merito, laddove essi hanno affermato che il primario avrebbe dovuto, in via preventiva e generale, emanare direttive appropriate in ordine alle situazioni in cui era necessario ricorrere al taglio cesareo e, comunque, vigilare sull’attività dei propri subordinati prima, durante e dopo il parto, assumendo specifiche informazioni su ogni caso presente in reparto e controllando la congruità delle terapie praticate. (Tratto dalla rivista Danno e responsabilità 3/2011 – Ipsoa).

Responsabilità del datore di lavoro e condotta abnorme del dipendente

Cassazione penale, sez. IV, 14 giugno 2012 (20 settembre 2012), n. 36272 – Pres. Brusco – Rel. Dovere

La condotta del dipendente che si mette all’opera in grave stato di ebbrezza (nel caso di specie, con un tasso alcolemico pari a 2,40 grammi/litro) rappresenta una condotta colposa avente valore di concausa dell’infortunio, ma come tale non è idonea ad escludere la rilevanza causale delle omissioni cautelari addebitabili al datore di lavoro.

Il caso

Un datore di lavoro viene condannato, in primo ed in secondo grado di giudizio, per la morte di un dipendente precipitato da un vano finestra posto a cinque metri di altezza dal suolo, mentre era impegnato in lavori di sigillatura.

Non si comprende esattamente quale specifica operazione l’infortunato stesse eseguendo e, quindi, per quale ragione egli avesse perso l’equilibrio. Si accerta, invece, lo stato di ebbrezza del medesimo dipendente al momento dell’infortunio, con un tasso alcolemico pari a 2,40 grammi/litro, valore implicante una marcata alterazione delle performance psicofisiche, con disturbi di equilibrio, atassia, sensazione di instabilità ed ebbrezza. Pacifico, inoltre, è il difetto dei presidi cautelari anticaduta, volti a tutelare il lavoratore (anche) dai suoi stessi comportamenti imprudenti, negligenti o imperiti, con esclusione della sola condotta assolutamente abnorme: dette mancanze cautelari fondano la responsabilità datoriale.

Innanzi alla Cassazione l’imputato obietta, in particolare, che, proprio in ragione dello stato d’incapacità di intendere e volere, il lavoratore non sarebbe stato comunque in grado di apprezzare l’eventuale esistenza di presidi antinfortunistici e di utilizzarli correttamente, ove in dotazione. Le contestate omissioni del datore di lavoro, pertanto, avrebbero dovuto qualificarsi come “occasione” e non come “causa” dell’infortunio.

La decisione

La Suprema Corte respinge detta tesi difensiva, ritenendola puramente congetturale.

La verifica della capacità del comportamento alternativo lecito di evitare il prodursi dell’evento che l’ordinamento mira a prevenire (cd. giudizio contro-fattuale), infatti, va condotta alla luce del parametro della “elevata credibilità razionale”, il quale chiama in causa l’utilizzo di leggi scientifiche di copertura o di massime di esperienza riconosciute, che permettono di ricostruire in via ipotetica quale sarebbe stato il divenire ordinario degli eventi una volta assunte determinate premesse fattuali. Sicché il giudizio contro-fattuale non è di per sé incompatibile con la presenza di ipotesi alternative, che vanno però scartate ove non convalidate dalle citate massime di esperienza (e quindi meramente congetturali).

Orbene, secondo la Cassazione, che il lavoratore, dato lo stato di incapacità, si sarebbe privato della cintura di sicurezza (se fornita) o l’avrebbe usata in modo errato, ovvero che il medesimo dipendente non avrebbe posto le protezioni del piano di lavoro verso il vuoto, sono, appunto, ipotesi in linea astratta non incompatibili con la condizione di ebbrezza alcolica, ma certo non convalidate da massime di esperienza.

 Pertanto, una volta accertato che il vano finestra entro il quale doveva operare il dipendente doveva essere provvisto di protezioni verso il vuoto, la Corte territoriale ha correttamente ritenuto che l’essersi posto all’opera in stato di ebbrezza rappresenta una condotta colposa del lavoratore avente valore di concausa dell’evento prodottosi, di per sé non idonea, tuttavia, ad escludere l’efficienza causale dell’inosservanza cautelare ascritta al datore di lavoro.

 La condotta maldestra, inavvertita, scoordinata, confusionale per effetto dell’ebbrezza alcolica altro non è che un comportamento imprudente, per il quale anche è posto l’obbligo prevenzionistico del datore di lavoro. Giusta, quindi, è la condanna di questi nel caso specifico, non ricorrendo alcun comportamento anomalo del lavoratore qualificabile come causa da sola sufficiente a produrre l’evento. (Tratto dalla rivista Danno e responsabilità 11/2012 – Ipsoa).

Danno da fermo tecnico in incidente stradale

Cassazione civile, sez. III, 8 maggio 2012, n. 6907 – Pres. Spagna Musso – Est. D’Amico

È possibile la liquidazione equitativa del danno cd. da “fermo tecnico” anche in assenza di prova specifica, rilevando a tal fine la sola circostanza che il danneggiato sia stato privato del veicolo per un certo tempo, anche a prescindere dall’uso effettivo a cui esso era destinato.

Il caso

Il sig. P. ottiene in giudizio il risarcimento del danno subito dalla propria autovettura in occasione di un sinistro stradale.

Tuttavia, il giudice del merito non riconosce in suo favore il risarcimento del danno da fermo tecnico in quanto non specificamente oggetto di prova.

Il sig. P. propone, allora, ricorso per cassazione, sostenendo che, in ordine a questo danno, il giudice deve decider secondo equità, senza la necessità che il danneggiato articoli una specifica prova.

La decisione

La S.C. accoglie la tesi del ricorrente e cassa la sentenza im-pugnata. Spiega, infatti, che è possibile la liquidazione equitativa del danno subito dal proprietario dell’autovettura danneggiata a causa della impossibilità di utilizzarla durante il tempo necessario alla sua riparazione, anche in assenza di prova specifica, rilevando a tal fine la sola circostanza che il danneggiato sia stato privato del veicolo per un certo tempo, anche a prescindere dall’uso effettivo a cui esso era destinato.

L’autoveicolo è, difatti, anche durante la sosta forzata, fonte di spesa (tassa di circolazione, premio di assicurazione, ecc.) comunque sopportata dal proprietario, ed è altresì soggetto a un naturale deprezzamento di valore.

I precedenti

In precedenza, cfr. in conformità Cass. 9 novembre 2006, n. 23916, nonché, in motivazione, Cass. 27 gennaio 2010, n. 1688. Tuttavia, occorre segnalare sul tema il contrasto giurisprudenziale tra le conclusioni alle quali è pervenuta la sentenza in commento ed altro orientamento, il quale sostiene che il c.d. “danno da fermo tecnico” del veicolo incidentato

non può considerarsi sussistente “in re ipsa”, quale conseguenza automatica dell’incidente, ma necessita di esplicita prova che attiene tanto al profilo della inutilizzabilità del mezzo meccanico in relazione ai giorni in cui esso è stato sottratto alla disponibilità del proprietario, quanto a quello della necessità del proprietario stesso di servirsene, così che, dalla impossibilità della sua utilizzazione, ne sia derivato un danno (quale, ad esempio, quello derivante da impossibilità allo svolgimento di un’attività lavorativa, ovvero da esigenza di far ricorso a mezzi sostitutivi). In tal ultimo senso, cfr. Cass. 9 marzo 2011, n. 5543, nonché, in precedenza, Cass. 19 novembre 1999, n. 12820.

La dottrina

S. Argine, La ritrovata valorizzazione dell’esigenza probatoria in ambito risarcitorio, in Resp. civ. e prev., 2012, 122, che tratta, appunto, del danno da fermo tecnico, del rifiuto del concetto di danno in re ipsa come obiettivo faticosamente raggiunto dalla giurisprudenza, nonché del contenuto della prova necessaria per ottenerne il riconoscimento. Dello stesso autore e sullo stesso tema, cfr. anche Cessione del credito risarcitorio e noleggio di vettura sostitutiva: profili interpretativi, in Resp. civ. e prev., 2011, 2462. (Tratto dalla rivista Danno e responsabilità 7/2012 – Ipsoa).