La morte di Giovanni: la soldatessa era ubriaca e alla rotonda ha accelerato

Il ministero della Difesa, su richiesta della Base o in autonomia, può lasciare il giudizio agli Usa. La militare era fuori servizio. Le differenze sulla competenza con il caso Cermis.

La morte di Giovanni si poteva evitare? Sì, secondo la procura di Pordenone, che accusa la giovane militare americana alla guida dell’auto di non aver rispettato le «regole cautelari» che le avrebbero consentito di controllare quella Volkswagen Polo piombata come un proiettile contro un ragazzo di 15 anni, colpevole solo di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato.

Tanto più che dagli esami ai quali la ventenne è stata sottoposta in ospedale, dove è entrata per le lievi ferite riportate nell’incidente, è arrivata la risposta che tutti, stretti nel dolore o impegnati nelle indagini, attendevano: il test alcolemico ha rivelato una concentrazione di 2,09 grammi per litro, ben oltre il limite di legge che, nella migliore delle ipotesi, è 0,50. Ma non è chiaro se, vista la giovane età della conducente, sia addirittura inferiore.

Una circostanza che aggrava la posizione della militare che è indagata per omicidio stradale e attende, ai domiciliari, la convalida dell’arresto in flagranza.

Secondo la procura di Pordenone, se la conducente avesse rispettato le regole che tutelano la sicurezza stradale, «avrebbe potuto controllare la marcia della vettura da lei condotta ed evitare l’impatto con la persona offesa».

Sulla base dei rilievi dei carabinieri del Radiomobile di Pordenone, alle 2.35 del 21 agosto, 20 anni, militare della base Usaf di Aviano, stava percorrendo a bordo di una Polo via Roveredo a Porcia.

Era diretta verso la Pontebbana. Alla rotatoria all’incrocio con via Lazio, «aumentava repentinamente la velocità» del mezzo. È in quei pochi secondi che si decide la vita di Giovanni. L’auto, fuori controllo, collide con il cordolo che separa la carreggiata e la pista ciclabile.

La invade e colpisce Giovanni, che viene travolto e sbalzato in aria. Un’ora e mezza dopo il ragazzo muore in ospedale per «shock emorragico con trauma addominale da politrauma della strada».

Lunedì la salma è stata sottoposta a un esame esterno e rimessa alla disponibilità degli inquirenti, che decideranno per l’eventuale autopsia.

Un quadro sulla base del quale il pubblico ministero Andrea Del Missier ha chiesto la convalida dell’arresto operato in flagranza dai carabinieri.

A garanzia dei diritti della ventenne è stato nominato un legale d’ufficio: l’incarico è stato affidato all’avvocato Mariagrazia Formentini.

Anche la famiglia Zanier è rappresentata da un legale, l’avvocato Fabio Gasparini. «La circostanza che è emersa è ancora più drammatica – ha spiegato –. Questa tragedia si poteva evitare. Siamo certi che la procura farà l’attività di indagine necessaria ad appurarlo e noi siamo a disposizione per ulteriori attività, nell’interesse dei familiari».

Le domande aperte sono ancora tante. La militare era uscita dalla discoteca Papi on the beach? Ed, eventualmente, è lì che avrebbe bevuto le sostanze alcoliche che hanno contribuito al tasso alcolemico trovato nel suo sangue? Le testimonianze raccolte aiuteranno anche a delineare un quadro più preciso delle ultime ore di vita di Giovanni.

Una tragedia che trascina la Destra Tagliamento sotto i riflettori di tutta Italia, che si chiede chi giudicherà la militare americana. L’unica certezza è, al momento, chi indaga.

E cioè la procura di Pordenone, intenzionata a fare piena luce sulla vicenda. Ma la giurisdizione è il dubbio di tanti e di americani, nelle aule del tribunale, ne arrivano ben pochi.

«Al momento dell’esercizio dell’azione penale, il ministro della Giustizia italiano può, a discrezione o su richiesta della base americana, attivare il difetto di giurisdizione e consentire così all’indagato statunitense di essere processato nel proprio paese» spiega il procuratore Raffaele Tito. Un’opzione che si basa su trattati internazionali.

La memoria del Cermis è ancora fresca, con la differenza che all’epoca i militari erano in servizio. La decisione finale è nelle mani del ministro della Giustizia: proprio quella che invoca chi oggi piange un figlio, un fratello, un amico.

Dal Messaggero Veneto del 22.08.2022

Pordenone, focolaio Covid in reparto. La dipendente: «Primario al lavoro con tosse e starnuti». Ma per il Pm non c’è reato

Sul focolaio di Covid-19 che in pieno lockdown colpì la struttura complessa di Anatomia patologica, all’ospedale di Pordenone, ha indagato la Procura. I contagi erano forse riconducibili al mancato rispetto delle linee guida emanate dalla Regione? Dopo due anni di accertamenti delegati ai carabinieri, il pm Carmelo Barbaro ha chiesto l’archiviazione del fascicolo aperto per verificare se vi fossero ipotesi di reato in capo al primario del reparto. L’ipotesi di epidemia colposa è stata esclusa, ma il caso non può essere considerato chiuso perché, contro le conclusioni del magistrato, è stata presentata opposizione da parte della dipendente che in una denuncia-querela aveva fatto riferimento a comportamenti «negligenti» in pieno lockdown da parte del superiore.

L’OPPOSIZIONE

Secondo la denunciante, tutelata dall’avvocato Luca Colombaro, il primario sarebbe andato al lavoro pur manifestando i sintomi del Covid. Che nonostante «tosse, starnuti e assenza di gusto» non avrebbe rispettato il distanziamento e indossato la mascherina. E che inizialmente avrebbe rifiutato di sottoporsi al tampone. La sua versione ha trovato conferma in numerose testimonianze raccolte dagli investigatori e ha spinto il pm, nelle sue conclusioni, a parlare di un «comportamento estremamente superficiale, aggravato sia dalla notoria situazione emergenziale sia dal ruolo rivestito». Ma questo non può comportare conseguenze penali: non è possibile dimostrare un nesso di causa tra la positività del medico e i tre contagi avvenuti nel suo reparto a fine marzo 2020. La prova che a contagiare le tre dipendenti sia stato lui non è emersa.

LA SICUREZZA

Secondo l’avvocato Colombaro, se l’epidemia colposa può essere ritenuta insussistente, così non sarebbe per le lesioni nei confronti delle dipendenti che avevano avuto una malattia di oltre 40 giorni riconosciuta dall’Inail e ricondotta al luogo di lavoro. Nell’opposizione si lamenta che il primario, responsabile di sicurezza e tutela della salute dei dipendenti del reparto, abbia disatteso alle prescrizioni della Regione, che vietava l’accesso in ospedale a operatori sanitari con sintomi influenzali, raffreddore o tosse. Al gip Monica Biasutti, che a novembre valuterà il caso, è stato quindi chiesto di sentire ulteriori testimoni e di acquisire nuove documentazioni per sondare l’ipotesi del reato di lesioni colpose.

LA DIFESA

L’anatomo patologo si è affidato all’avvocato Fabio Gasparini. «Siamo sereni – spiega il legale – il primario è uno stimato professionista che si è sempre attenuto alle linee guida di volta in volta emanate dalla Regione Fvg, anche per quanto riguarda le mascherine. Ritiene di avere sempre tenuto una condotta corretta. Non c’è alcuna criticità». L’inizio del lockdown per gli operatori sanitari era stato uno tsunami senza precedenti: contagi ogni giorno più alti, decessi, cure che non funzionavano e carenza di mascherine. La difesa sta ricostruendo quei giorni terribili confrontando anche le disposizioni contenute nelle linee guida, compresa quella che, vista la mancanza di mascherine, invitava a indossarle soltanto in presenza di soggetti sintomatici.

Dal Gazzettino del 20.08.2022

Agenda Webinar 05.05.2022: Periodo di malattia penalmente rilevante

Concetto e durata del periodo di malattia penalmente rilevante negli infortuni sul lavoro:casi pratici e sentenze.

La determinazione della gravità di un infortunio dipende anche dalla sua durata effettiva.

Il calcolo, ai sensi di legge, potrebbe non essere di così immediata valutazione.

Lo dimostrano alcuni casi e sentenze di cui parleremo con l’avv. Fabio Gasparini e l’ing. Pierosvaldo Savi il 5 maggio 2022 alle ore 17:00.

Modera Luca Causser, CEO Nord Pas 14000

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