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Contagi in reparto nel momento terribile della pandemia: il gip archivia la posizione dell’ex primario

È impossibile trovare un collegamento tra la positività al Covid dell’ex primario di Anatomia patologica dell’ospedale di Pordenone e i contagi di tre dipendenti in pieno lockdown. Ieri il gip Monica Biasutti ha definitivamente chiuso la vicenda disponendo l’archiviazione del fascicolo d’indagine: ritiene che non sia emerso alcun nesso di causa e che non si possa configurare l’ipotesi di epidemia colposa nei confronti dell’anatomo patologo S.C.S. È la stessa conclusione a cui era arrivato il sostituto procuratore Carmelo Barbaro, che dopo due anni di accertamenti affidati ai carabinieri del Nucleo investigativo aveva chiesto l’archiviazione del caso. A opporsi era stata la dipendente dell’Azienda sanitaria che in una denuncia-querela aveva fatto riferimento a comportamenti «negligenti» da parte del superiore. È in seguito all’opposizione all’archiviazione che ieri la vicenda è stata esaminata dal giudice per le indagini preliminari, che nella sua decisione non ha fatto a meno di sottolineare che la denunciante non era parte offesa, in quanto non rimase contagiata.

GLI ACCERTAMENTI
Il focolaio in Anatomia patologica risale a marzo 2020. I contagi erano forse riconducibili al mancato rispetto delle linee guida emanate dalla Regione? Secondo quanto riferito nella denuncia, il primario sarebbe andato al lavoro pur manifestando i sintomi del Covid, non avrebbe rispettato il distanziamento e indossato la mascherina. Una versione che ha trovato conferma in diverse testimonianze raccolte dagli investigatori. Un «comportamento estremamente superficiale, aggravato sia dalla notoria situazione emergenziale sia dal ruolo rivestito», ha evidenziato la Procura, ma che non può comportare conseguenze penali perché non è provato che a contagiare le tre dipendenti sia stato lui.
L’OPPOSIZIONE
Ci sarebbe stato margine per valutare un’ipotesi di lesioni nei confronti delle dipendenti che avevano avuto una malattia di oltre 40 giorni riconosciuta dall’Inail e ricondotta al luogo di lavoro. Nell’opposizione all’archiviazione ha chiesto al gip di acquisire altre testimonianze e di acquisire ulteriori documentazioni, nel presupposto che il primario, responsabile di sicurezza e tutela della salute dei dipendenti del reparto, avesse disatteso le prescrizioni della Regione, che vietava l’accesso in ospedale a operatori sanitari con sintomi influenzali, raffreddore o tosse.
LA DIFESA
«L’archiviazione – afferma l’avvocato Fabio Gasparini, che ha tutelato S.- restituisce serenità e dignità al mio assistito. Si è sempre attenuto alle linee guida ministeriali, anche per quanto riguarda le mascherine. Si è ritrovato in un clima di caccia alle streghe, si è voluto trovare un capro espiatorio». A fine marzo 2020 l’ospedale di Pordenone, come tutte le strutture sanitarie in Italia, si è ritrovato a gestire una situazione di emergenza senza precedenti tra contagi fuori controllo, decessi, cure che non funzionavano e persino carenza di dispositivi di protezione. La difesa ha ricostruito quei giorni terribili confrontando anche le disposizioni contenute nelle linee guida, compresa quella che, vista la mancanza di mascherine, invitava a indossarle soltanto in presenza di soggetti sintomatici. «Per parlare di epidemia colposa – spiega il legale – bisogna provare elementi come la diffusione, la diffusibilità, l’incontrollabilità del diffondersi del male in un dato territorio e su un numero indeterminato e indeterminabile di persone, elementi non riscontrabili nell’ambito di un ospedale». Una mail del 13 marzo inviata dal responsabile del Servizio di prevenzione affermava che chi lavorava in Anatomia patologica correva gli stessi rischi della «popolazione generale» e pertanto era previsto l’uso delle mascherine «se non a contatto di casi positivi». «La situazione era tale – ha ricordato il legale al gip – che per rinvenire nuove mascherine il dottor S. si è persino recato ai Servizi Esequiali per ottenerne una quantità apprezzabile per il proprio reparto» (Dal Gazzettino del 9.11.2022)

Travolto e ucciso a quindici anni. Chiesto il processo per la soldatessa americana. Familiari della vittima assistiti dall’avvocato Fabio Gasparini

È stato chiesto il giudizio immediato per J. B. 20 anni, la soldatessa americana che la notte del 21 agosto ha travolto e ucciso il quindicenne pordenonese G. Z. Alle parti è stato notificato ieri il decreto che fissa l’udienza al 7 marzo, davanti al Tribunale in composizione collegiale, perché l’accusa di omicidio stradale è aggravata dalla guida in stato di ebbrezza. L’imputazione formulata dal sostituto procuratore Andrea Del Missier è stata aggravata nella parte che riguarda le condizioni in cui la giovane si è messa alla guida. Sulla base di una consulenza tecnica del medico legale Michela Frustaci, infatti, il tasso alcolemico non è più 2,09 grammi/litro, ma è stato elevato a 2,315.

LA GIURISDIZIONE
Resta aperta la questione della giurisdizione. Le autorità americane, come accade in questi casi, sulla base della convenzione che stabilisce che i militari dell’alleanza atlantica siano processati nel Paese d’origine se commettono reati in Italia, hanno chiesto al ministero della Giustizia di rinunciare al processo. Sul punto a esprimersi sarà il nuovo ministro Carlo Nordio, che dalla Procura di Pordenone ha già ricevuto la comunicazione dell’avvio dell’azione penale. Il fatto che la soldatessa non fosse in servizio quando ha travolto Giovanni, non dovrebbe comportare, come successo in altre occasioni, un cambio di fronte.
LE PARTI
Gli avvocati hanno 15 giorni di tempo per presentare eventuali istanze di rito alternativo che prevedono lo sconto di pena di un terzo. «Una linea che stiamo valutando e che verrà definita una volta esaminati gli atti di indagine. Da parte nostra continuerà una linea improntata alla collaborazione». J. B., dunque, potrà chiedere alla Procura di patteggiare o, al gup, di essere ammessa a un abbreviato.

A tutelare la famiglia Z. è l’avvocato Fabio Gasparini, a cui la costituzione di parte civile sarà preclusa soltanto in caso di un patteggiamento.
L’INCIDENTE
Quella notte G. Z. stava tornando a casa a piedi assieme agli amici con cui aveva trascorso la sera al Papi di Roveredo. A Porcia, mentre si trovava sulla pista ciclabile della rotonda di via Roveredo portando a mano la bicicletta di un amico, è stato travolto dalla soldatessa, piombata sul ragazzo con una Volkswagen Polo a circa 65 chilometri l’ora, come ipotizzato dalla perizia depositata dall’ingegner Pierluigi Zamuner, a cui la Procura si è affidata per ricostruire la dinamica dell’incidente. Anche Julia Bravo tornava da una serata con gli amici al Papi. Erano le 2.30 e affrontando la rotonda a Sant’Antonio non è riuscita a completare la manovra travolgendo il 15enne. «La perizia – afferma la difesa – conferma che la velocità dell’auto non era eccessiva. Al massimo, come rileva il nostro consulente, l’ingegner Carlo Gava, poteva andare a 67 chilometri l’ora, velocità che si avvicina a quella indicata dal consulente della Procura». È una circostanza confermata anche da una testimone che viaggiava dietro la Volkswagen Polo. Julia Bravo avrebbe percorso il rettilineo di via Roveredo a velocità molto moderata per poi accelerare, inspiegabilmente, all’altezza della rotonda. La giovane è ai domiciliari. (Dal Gazzettino del 25.11.2022)

Ferito nello scontro tra furgone e scooter con prognosi di 30 giorni, ma dopo un mese muore. Indaga la Procura

Quell’incidente, avvenuto oltre un mese fa, non sembrava aver avuto conseguenze così gravi.

Uno scontro tra un furgone e uno scooter che aveva comportato alcune costole incrinate e una scapola rotta: una prognosi di 30 giorni. Il ferito, un pensionato di 75 anni, è invece morto in ospedale pochi giorni fa. Un decesso sul quale la Procura di Pordenone vuole fare chiarezza.

Il pubblico ministero ha disposto un’autopsia per accertare le cause della morte di un pordenonese di origine siciliana spirato in ospedale l’8 settembre.

Lo scorso 4 agosto era rimasto coinvolto in un incidente stradale a Pordenone, in viale Venezia. Il suo scooter si era scontrato con un furgone guidato da un 62enne.

L’incidente non era sembrato in un primo momento particolarmente grave, tanto che i medici avevano considerato il pensionato – una persona dinamica, con un passato da militare e l’iscrizione ancora attiva all’Associazione carristi – guaribile in 30 giorni. Invece un mese dopo è morto.

L’incidente, il ricovero e il decesso sono in qualche modo collegati? Una domanda alla quale il pubblico ministero Monica Carraturo punta a rispondere tramite l’affidamento di un esame autoptico al medico legale Giovanni Del Ben.

Agli accertamenti potranno assistere anche consulenti nominati dagli altri soggetti interessati, tra cui il conducente del furgone difeso dall’avvocato Fabio Gasparini.

Dal Messaggero Veneto del 11.09.2022