Anno: 2014

Lavoratore licenziato vince 3 volte

Un lavoratore rientra dalla cassaintegrazione, “litiga” con un manager (che gli lancia una scatola di cartone) e viene licenziato. Il dirigente viene “ammonito” dal giudice di pace e, a sua volta, querela per calunnia l’ex sottoposto. Che ieri è stato assolto. Per lui si tratta di una doppia “vittoria”, perché anche il giudice del lavoro ne ha ordinato, nel frattempo, il reintegro in azienda. Sarebbe stato “costretto”, con questi atteggiamenti, a lasciare il posto di lavoro. Partiamo dal fondo della vicenda, in tempi di “job act”, quella discussa ieri davanti al giudice monocratico del tribunale Patrizia Botteri. Imputato, per calunnia nei confronti dell’ex manager della S. di via Nuova di Corva, era M. R., 46 anni, di Pordenone, assistito dall’avvocato Fabio Gasparini. Il dipendente dell’azienda pordenonese doveva rispondere di avere accusato, pur sapendolo innocente, l’ex superiore di lesioni e ingiurie, per averlo colpito con uno scatolone e averlo offeso. Fatti che sarebbero avvenuti quattro anni fa. Davanti al giudice, nel corso delle udienze, hanno testimoniato diversi colleghi dell’imputato. Alcuni non erano presenti ai fatti, altri hanno confermato la versione resa da colui che poi si è trovato sul banco degli imputati. M. R., all’epoca, rientrava assieme ad altri sei colleghi da un periodo di cassa integrazione. Pochi giorni dopo, il diverbio col manager e il licenziamento. Ma l’ex dipendente aveva ricorso davanti al giudice del lavoro, che aveva ordinato il reintegro. Nel frattempo il manager era stato processato per avere lanciato lo scatolone al sottoposto: il giudice di pace lo aveva condannato per lesioni e ingiurie a 420 euro di multa e al risarcimento di mille euro. Nel settembre 2010 R. stava movimentando alcuni scatoloni: il manager lo avrebbe apostrofato con un «fannullone», lanciandone contro uno. R. era stato licenziato. Ma sia il giudice penale sia quello civile gli avevano dato ragione. L’ex manager, però, a sua volta aveva querelato l’ex sottoposto per calunnia. Si riteneva falsamente accusato. Non è stato dello stesso parere il giudice monocratico del tribunale di Pordenone Patrizia Botteri, che ha assolto l’ex lavoratore della S. perché il fatto non sussiste. Il pubblico ministero aveva chiesto la condanna a un anno e quattro mesi di reclusione. (Dal Messaggero Veneto del 10.12.2014)

Bancarotta e intedizione fissa: decisone della Corte di Cassazione

Nei reati di bancarotta fraudolenta la sanzione accessoria si applica in misura fissa, con 10 anni di inabilitazione all’esercizio di un’impresa commerciale e altrettanti di divieto a esercitare gli uffici direttivi presso qualsiasi impresa.

La Sezione feriale della Cassazione ha definitivamente respinto il ricorso di una coppia di imprenditori veneti, difesi dell’avvocato Luigi Li Gotti e dall’avvocato Fabio Gasparini, condannati al minimo della pena (1 anno e 4 mesi) ma con la sanzione accessoria applicata in misura fissa, cioè i 10 anni di inabilitazione previsti dall’ultimo comma dell’articolo 216 della legge fallimentare.

La Corte, con la sentenza 35929/14, ha respinto anche i motivi aggiunti dei ricorrenti, che sollecitavano la remissione alle Sezioni unite per un asserito conflitto giurisprudenziale sul mancato allineamento della pena accessoria a quella principale. A giudizio della Cassazione, però, la questione è da considerarsi definitivamente risolta – e in senso sfavorevole ai ricorrenti – dopo la sentenza della Corte costituzionale 134/2012 e con il corollario della più recente giurisprudenza di legittimità, a cominciare dalla sentenza 628/14 dello scorso gennaio (si veda Il Sole 24 Ore dell’11 gennaio).

La sanzione che accompagna quella carceraria nella bancarotta fraudolenta, secondo il relatore, deve attenersi al dato letterale dell’articolo 217 della legge fallimentare (267/42), che prescrive 10 anni di inabilitazione tout court, segnando così un’eccezione al principio del Codice penale (articolo 37) che determina la sanzione interdittiva in base alla durata della pena principale. La questione va inquadrata nel dato normativo che, per la bancarotta semplice (articolo 217), prevede l’interdizione «fino a due anni», mentre per quella fraudolenta (articolo 216) indica una durata di dieci anni. La ratio di questa discrepanza, secondo una giurisprudenza ormai consolidata «è evidentemente special–preventiva e la scelta del legislatore non appare fuori dagli schemi della logica», perché nell’ipotesi più grave «si è voluto che, quale che sia la pena principale, il soggetto fosse posto in condizioni di non operare nel campo imprenditoriale dove ha creato danno e “disordine” per il lasso di tempo di due lustri; nella ipotesi meno grave, l’inabilitazione e l’incapacità hanno un “tetto” molto meno elevato e la loro effettiva durata è rimessa all’apprezzamento del giudice».

La stessa Corte costituzionale, chiamata a esprimersi sul punto, aveva dichiarato inammissibile la questione ritenendo (134/2012) che la sentenza additiva richiesta per rendere applicabile l’articolo 37 del Codice penale non costituisse una soluzione costituzionalmente obbligata, rimanendo legata a scelte affidate alla discrezionalità del legislatore. «La Consulta – scrive il relatore – ha dunque implicitamente confermato la validità dell’interpretazione secondo cui nell’attuale formulazione legislativa la pena accessoria è prevista in misura fissa (e ciò non lede alcun diritto costituzionalmente protetto)».

Altro discorso, invece, merita la sanzione accessoria dell’interdizione dei pubblici uffici, dove anche in materia fallimentare si applica la regola dell’articolo 29 del Codice penale. Quindi interdizione perpetua per condanne superiori a cinque anni di reclusione, e cinque anni di interdizione nel caso di condanna non inferiore a tre anni di carcere. (da Quotidiano Diritto Il Sole 24 Ore)

Diffamazione, blogger condannato

Il blogger ci andò giù pesante, arrivando a definire G, D. L., come una specie di mafioso. È stato condannato al pagamento di 3 mila euro di multa, 4 mila di risarcimento e 3 mila euro per spese legali, ma senza pena detentiva, T. D. F. (difeso dall’avvocato Gino Sperandio) accusato di diffamazione ai danni dell’ex presidente di Longarone Fiere. L’imputato gestisce il sito www.vajont.info e proprio attraverso la rete aveva sferrato il suo attacco a D. L.i, residente in provincia di Pordenone, ma da sempre molto noto nel bellunese e soprattutto a Longarone. D. L. (parte civile assistito dall’avvocato Fabio Gasparini), che ha avuto diverse esperienze in politica e continua ad essere attivo, era stato definito da D. F. con parole tipo «dominus dell’altrettanto mafiosa fiera di Longarone», «faccendiere ipocrita», «frequentatore e produttore di delinquenti sindaci» e «ladro nel pubblico e ladro nel privato». D. L. ne ha avuto abbastanza, decidendo di procedere: «Posso sentirmi dare del lobbista», ha commentato fuori onda, «ma sicuramente non del ladro. È inaccettabile, oltre che falso».

Il fatto risale al 2012, poco dopo che il sito era stato riattivato, in seguito a un periodo di oscuramento deciso dal giudice Giancotti in seguito alla denuncia per diffamazione presentata da Maurizio Paniz.

L’imputato ha cercato di difendersi appellandosi al diritto di critica politica, ma i suoi toni erano andati ben oltre alla normale e accettabile analisi politica.

In parte, però, le richieste della difesa sono state accettate, proprio con l’esclusione della pena detentiva da parte del giudice nella condanna pronunciata ieri.

Il pubblico ministero, infatti, aveva chiesto che il blogger fosse condannato a cinque mesi di reclusione, oltre al risarcimento del danno di immagine e al pagamento delle spese (dal Corriere delle Alpi del 14.11.2014)