Mese: Novembre 2013

Omicidio colposo in incidente stradale

Cassazione penale, sez. IV, 20 settembre 2011 (5 ottobre 2011), n. 36067 – Pres. Brusco – Rel. Piccialli – Ric. C.

Per accusare il conducente di una autovettura di velocità eccessiva e, comunque, non consona allo stato dei luoghi (art. 141 C.d.S.), così da ritenerlo responsabile della morte occorsa a terzi in sinistro stradale, vanno accertatela prevedibilità della situazione di pericolo e la possibilità di avvistare detta situazione, che avrebbe dovuto indurre il conducente medesimo a rallentare.

Il caso

Per effetto di un precedente tamponamento, un autoarticolato si ferma in autostrada di traverso, ostruendo completamente il traffico nella carreggiata e lasciando pure cadere sull’asfalto parte dei fanghi di conceria trasportati. Una delle autovetture che sopraggiungono nella corsia di sorpasso non riesce ad arrestarsi e collide violentemente con l’autoarticolato: nell’urto muore la trasportata.

I giudici di primo e secondo grado addebitano il tragico evento al conducente di detta autovettura, sulla scia delle conclusioni del nominato CTU, secondo il quale l’imputato guidava ad una velocità non consentita e, comunque, non rispondente alla prudenza richiesta dalla situazione (art. 141 C.d.S.).

Detta velocità veniva dedotta dalle tracce di frenata sulla fanghiglia, che copriva il piano viabile a tratti, dalla posizione finale dell’automezzo e dalla violenza dell’impatto, superiore a quella di altri veicoli, pure coinvolti nell’incidente senza gravi conseguenze.

Innanzi alla Cassazione il ricorrente lamenta la manifesta illogicità della pronuncia d’appello, non solo perché non v’era certezza sulla velocità di marcia tenuta dall’imputato al momento del sinistro nonché sul limite di velocità da ritenersi

consentito, ma soprattutto perché, onde accertare la congruità della velocità, bisognava tener conto dello stato dei luoghi, ma era pacifica l’assoluta imprevedibilità della situazione di pericolo originatasi dal primo tamponamento posto in essere dall’autoarticolato.

La decisione

La Suprema Corte ritiene evidente il vizio logico-giuridico della pronuncia d’appello, che accusa l’imputato di aver tenuto una velocità non consona allo stato dei luoghi, pur in presenza di circostanze di fatto del tutto imprevedibili.

Per la Cassazione resta valido il principio secondo cui il comportamento di chi ostruisce la carreggiata stradale, ponendosi di traverso con l’autovettura, non interrompe il nesso di casualità tra la condotta colposa dei conducenti dei veicoli sopraggiunti e gli eventi collisivi verificatisi; va condiviso, inoltre, che, in caso di infortunio subito da terzi, l’utente della strada è esente da penale responsabilità solo quando la sua condotta è immune da qualsiasi addebito e, dunque, semplice occasione dell’evento. Ma la colpa dell’agente – rileva pure la Corte – è ipotizzabile solo quando l’evento dannoso sia prevedibile ex ante, potendo l’agente avvertire in anticipo quello specifico sviluppo causale ed attivarsi per evitarlo; per l’eventuale condanna, inoltre, bisogna interrogarsi se la condotta appropriata (c.d. comportamento alternativo lecito) avrebbe o no evitato l’evento.

Orbene, la Cassazione avverte che il presunto eccesso di velocità è stato malamente ancorato dai giudici di merito a dati equivoci e, comunque, non determinanti, come quello sulla diversa entità delle conseguenze del tamponamento su altri

veicoli, non meglio precisati.

In ogni modo, la sentenza impugnata prende atto che la situazione di pericolo in cui si era imbattuto l’imputato non era

prevedibile: alla totale ostruzione della carreggiata ed alla fanghiglia a terra si erano aggiunte la «ridotta possibilità di avvistamento dell’autoarticolato posto di traverso, in quanto gli automobilisti che sopraggiungevano potevano solo intravedere i quattro catadiottri di colore giallo situati sulla fiancata desta dell’automezzo» ed la «conformazione curvilinea della strada». La medesima sentenza, pertanto, non può legittimamente addebitare all’imputato di aver tenuto una velocità inidonea alla detta (imprevedibile) situazione di pericolo. (Tratto dalla rivista Danno e responsabilità 11/2011 – Ipsoa).

Responsabilità del datore di lavoro e condotta abnorme del dipendente

Cassazione penale, sez. IV, 14 giugno 2012 (20 settembre 2012), n. 36272 – Pres. Brusco – Rel. Dovere

La condotta del dipendente che si mette all’opera in grave stato di ebbrezza (nel caso di specie, con un tasso alcolemico pari a 2,40 grammi/litro) rappresenta una condotta colposa avente valore di concausa dell’infortunio, ma come tale non è idonea ad escludere la rilevanza causale delle omissioni cautelari addebitabili al datore di lavoro.

Il caso

Un datore di lavoro viene condannato, in primo ed in secondo grado di giudizio, per la morte di un dipendente precipitato da un vano finestra posto a cinque metri di altezza dal suolo, mentre era impegnato in lavori di sigillatura.

Non si comprende esattamente quale specifica operazione l’infortunato stesse eseguendo e, quindi, per quale ragione egli avesse perso l’equilibrio. Si accerta, invece, lo stato di ebbrezza del medesimo dipendente al momento dell’infortunio, con un tasso alcolemico pari a 2,40 grammi/litro, valore implicante una marcata alterazione delle performance psicofisiche, con disturbi di equilibrio, atassia, sensazione di instabilità ed ebbrezza. Pacifico, inoltre, è il difetto dei presidi cautelari anticaduta, volti a tutelare il lavoratore (anche) dai suoi stessi comportamenti imprudenti, negligenti o imperiti, con esclusione della sola condotta assolutamente abnorme: dette mancanze cautelari fondano la responsabilità datoriale.

Innanzi alla Cassazione l’imputato obietta, in particolare, che, proprio in ragione dello stato d’incapacità di intendere e volere, il lavoratore non sarebbe stato comunque in grado di apprezzare l’eventuale esistenza di presidi antinfortunistici e di utilizzarli correttamente, ove in dotazione. Le contestate omissioni del datore di lavoro, pertanto, avrebbero dovuto qualificarsi come “occasione” e non come “causa” dell’infortunio.

La decisione

La Suprema Corte respinge detta tesi difensiva, ritenendola puramente congetturale.

La verifica della capacità del comportamento alternativo lecito di evitare il prodursi dell’evento che l’ordinamento mira a prevenire (cd. giudizio contro-fattuale), infatti, va condotta alla luce del parametro della “elevata credibilità razionale”, il quale chiama in causa l’utilizzo di leggi scientifiche di copertura o di massime di esperienza riconosciute, che permettono di ricostruire in via ipotetica quale sarebbe stato il divenire ordinario degli eventi una volta assunte determinate premesse fattuali. Sicché il giudizio contro-fattuale non è di per sé incompatibile con la presenza di ipotesi alternative, che vanno però scartate ove non convalidate dalle citate massime di esperienza (e quindi meramente congetturali).

Orbene, secondo la Cassazione, che il lavoratore, dato lo stato di incapacità, si sarebbe privato della cintura di sicurezza (se fornita) o l’avrebbe usata in modo errato, ovvero che il medesimo dipendente non avrebbe posto le protezioni del piano di lavoro verso il vuoto, sono, appunto, ipotesi in linea astratta non incompatibili con la condizione di ebbrezza alcolica, ma certo non convalidate da massime di esperienza.

 Pertanto, una volta accertato che il vano finestra entro il quale doveva operare il dipendente doveva essere provvisto di protezioni verso il vuoto, la Corte territoriale ha correttamente ritenuto che l’essersi posto all’opera in stato di ebbrezza rappresenta una condotta colposa del lavoratore avente valore di concausa dell’evento prodottosi, di per sé non idonea, tuttavia, ad escludere l’efficienza causale dell’inosservanza cautelare ascritta al datore di lavoro.

 La condotta maldestra, inavvertita, scoordinata, confusionale per effetto dell’ebbrezza alcolica altro non è che un comportamento imprudente, per il quale anche è posto l’obbligo prevenzionistico del datore di lavoro. Giusta, quindi, è la condanna di questi nel caso specifico, non ricorrendo alcun comportamento anomalo del lavoratore qualificabile come causa da sola sufficiente a produrre l’evento. (Tratto dalla rivista Danno e responsabilità 11/2012 – Ipsoa).

Danno da fermo tecnico in incidente stradale

Cassazione civile, sez. III, 8 maggio 2012, n. 6907 – Pres. Spagna Musso – Est. D’Amico

È possibile la liquidazione equitativa del danno cd. da “fermo tecnico” anche in assenza di prova specifica, rilevando a tal fine la sola circostanza che il danneggiato sia stato privato del veicolo per un certo tempo, anche a prescindere dall’uso effettivo a cui esso era destinato.

Il caso

Il sig. P. ottiene in giudizio il risarcimento del danno subito dalla propria autovettura in occasione di un sinistro stradale.

Tuttavia, il giudice del merito non riconosce in suo favore il risarcimento del danno da fermo tecnico in quanto non specificamente oggetto di prova.

Il sig. P. propone, allora, ricorso per cassazione, sostenendo che, in ordine a questo danno, il giudice deve decider secondo equità, senza la necessità che il danneggiato articoli una specifica prova.

La decisione

La S.C. accoglie la tesi del ricorrente e cassa la sentenza im-pugnata. Spiega, infatti, che è possibile la liquidazione equitativa del danno subito dal proprietario dell’autovettura danneggiata a causa della impossibilità di utilizzarla durante il tempo necessario alla sua riparazione, anche in assenza di prova specifica, rilevando a tal fine la sola circostanza che il danneggiato sia stato privato del veicolo per un certo tempo, anche a prescindere dall’uso effettivo a cui esso era destinato.

L’autoveicolo è, difatti, anche durante la sosta forzata, fonte di spesa (tassa di circolazione, premio di assicurazione, ecc.) comunque sopportata dal proprietario, ed è altresì soggetto a un naturale deprezzamento di valore.

I precedenti

In precedenza, cfr. in conformità Cass. 9 novembre 2006, n. 23916, nonché, in motivazione, Cass. 27 gennaio 2010, n. 1688. Tuttavia, occorre segnalare sul tema il contrasto giurisprudenziale tra le conclusioni alle quali è pervenuta la sentenza in commento ed altro orientamento, il quale sostiene che il c.d. “danno da fermo tecnico” del veicolo incidentato

non può considerarsi sussistente “in re ipsa”, quale conseguenza automatica dell’incidente, ma necessita di esplicita prova che attiene tanto al profilo della inutilizzabilità del mezzo meccanico in relazione ai giorni in cui esso è stato sottratto alla disponibilità del proprietario, quanto a quello della necessità del proprietario stesso di servirsene, così che, dalla impossibilità della sua utilizzazione, ne sia derivato un danno (quale, ad esempio, quello derivante da impossibilità allo svolgimento di un’attività lavorativa, ovvero da esigenza di far ricorso a mezzi sostitutivi). In tal ultimo senso, cfr. Cass. 9 marzo 2011, n. 5543, nonché, in precedenza, Cass. 19 novembre 1999, n. 12820.

La dottrina

S. Argine, La ritrovata valorizzazione dell’esigenza probatoria in ambito risarcitorio, in Resp. civ. e prev., 2012, 122, che tratta, appunto, del danno da fermo tecnico, del rifiuto del concetto di danno in re ipsa come obiettivo faticosamente raggiunto dalla giurisprudenza, nonché del contenuto della prova necessaria per ottenerne il riconoscimento. Dello stesso autore e sullo stesso tema, cfr. anche Cessione del credito risarcitorio e noleggio di vettura sostitutiva: profili interpretativi, in Resp. civ. e prev., 2011, 2462. (Tratto dalla rivista Danno e responsabilità 7/2012 – Ipsoa).